lunedì 27 novembre 2006

la favola della scopa e degli aspirapolvere

C’era una volta un paese di aspirapolvere.
In questo paese c’era un aspirapolvere in ogni casa, spesso due, a volte uno per ogni componente della famiglia, così che ognuno avesse modo di pulire personalmente la propria stanza. La vita, però, non trascorreva affatto tranquilla, per le continue liti che scoppiavano tra persone e aspirapolvere.
Gli aspirapolvere sapevano bene che le famiglie non potevano fare a meno di loro e si comportavano in maniera prepotente. Erano ingombranti e pretendevano d’avere una stanza propria, con le tendine e i cuscini. Si accendevano per lavorare solo quando ne avevan voglia; volevano essere sempre puliti, aggiornati e attaccati alla presa di corrente preferita. Agli abitanti, non restava che sopportare rassegnati.
Un giorno arrivò in paese una scopa.
Giunse nella piazza principale dopo un lunghissimo cammino; non sapeva dove si trovasse ed era molto stanca, così, appena vide un bar, decise di entrare per riposare e bere un cappuccino. Appena dentro tutte le persone e gli aspirapolvere presenti la guardarono male: non si era mai vista una scopa in un paese di aspirapolvere. Cominciarono a prenderla in giro per come era misera, inutile e strana. Solo un uomo le si avvicinò: “Io mi chiamo Ognazio, piacere”. “Buongiorno, io mi chiamo Danielino” rispose. “Devi aver fatto un lungo viaggio, perché non vieni ospite a casa mia, così potrai riposarti un po’”. La scopa, che era di animo fiducioso verso tutti, accettò la proposta.
L’uomo all’inizio fu molto gentile, gli presentò la sua famiglia e gli propose di fermarsi da lui per tutto il tempo necessario. Col passare dei giorni però, la gentilezza sparì e la famiglia si rivolgeva a Danielino solo per le pulizie domestiche. Lo prendevano, pulivano il pavimento e poi lo riponevano dietro una porta: “Sai non abbiamo altro spazio, ma tanto tu occupi poco posto”. Per non essere scortese e ricambiare l’ospitalità, la scopa non si lamentava. Intanto, però, gli aspirapolvere di casa, invidiosi e gelosi, avevano iniziato a fargli dei dispetti. Dopo una nuova cattiveria, decise di lasciare definitivamente quella vita triste.
Non era ancora uscito dal paese, quando incontrò una splendida ragazza: bionda, alta, con degli occhi bellissimi. “Tu devi essere Danielino, ho sentito molto parlare di te, io mi chiamo Esmeralda” disse “Sembri molto triste, devi aver passato dei brutti momenti, perché non vieni da me?”. La scopa pensò che nulla di brutto potesse venire da una creatura così dolce: accettò.
La vita con Esmeralda, però, non si dimostrò molto diversa da quella con Ognazio. Lei lo usava per pulire e poi l’infilava sotto il letto, senza dargli altre attenzioni. Aveva perfino cacciato di casa il suo aspirapolvere, così ora doveva occuparsi lui di tutte le faccende. Quando Danielino tentava di lasciarla, però, Esmeralda gli faceva gli occhioni dolci e gli sussurrava frasi come: “Non posso stare senza te”, “Hai un manico così lungo e duro”, “Hai setole così lucenti” e la scopa, intenerita, restava.
Continuò così per molti mesi e, quando finalmente decise di andarsene, Esmeralda si gettò piangente in ginocchio: “Non lasciarmi ti prego, cercheremo anche una scopa femmina così potrete spazzare insieme!”. Questa volta, però, non c’era niente da fare, Danielino era deciso. Se ne andò da quella casa e dal paese degli aspirapolvere, ricominciando a vagare senza meta.
Da quel momento, ogni volta si avvicinava ad un paese, sentiva sempre un po’ di paura: cercava di evitare le persone che si accostavano troppo e rifiutava garbatamente ogni invito. Passò così il resto della vita, da un posto a un altro; guardando il mondo che incontrava, dal punto di vista di una scopa in mezzo a tanti aspirapolvere.
Così, la scopa Danielino, visse camminando per il mondo solo e soltanto.

giovedì 23 novembre 2006

Pene d'Amore

Griselda cara,
amore mio,
non riesco più a non scriverti, stanotte t’ho sognata ancora.
Fermo al centro d’un lago, con i piedi che senza peso sfioravano l’acqua, ti vedevo avvicinarti. Superavi la riva guardandomi fisso negli occhi, camminavi sull’acqua anche tu. Avanzando ti spogliavi, lasciando una scia d’abiti dietro te. Mi raggiungevi completamente nuda e risucchiavi le mie labbra in un lunghissimo bacio a Folletto. Mi chiedevo come facevi a palparmi in quel modo: frugavi come se dieci tentacoli avessero sostituito le tue mani. Poi un tuo sussurro dissipò ogni pensiero: “Facciamo pacci-pacci-pum-pum?”. Sapevi come avrei risposto: “E daje!”. Iniziammo a fare pacci-pacci pum-pum come solo noi sappiamo fare.
Mi son risvegliato soffrendo più che mai di gran pene d’amore.
E’ da quel giorno, da quel tuo “sono confusa” che sto così. Sarà perché ti avevo detto “ti amo” e me lo avevi detto anche tu. Sarà perché si crede che quando le ragazze dicono “ti amo” ti amano veramente, col cuore gonfio. Sarà perché si crede che quando i ragazzi dicono “ti amo” ti amano solo per far venire meglio pacci-pacci-pum-pum. Sarà perché quando io ti dicevo “ti amo” ti amavo con tutto me stesso. Sarà perché quando tu mi dicevi “ti amo” ti godevi il mio cuore gonfio.
Ed ora qui, continuo a soffrire di gran pene d’amore.
Tante volte ho provato a venire sotto casa tua per parlarti, ma la tua confusione non me lo ha mai permesso. Eri confusa lunedì, spiaccicata sul finestrino di quella Clio rossa. Eri confusa martedì, avvolta a qualcosa dentro una 147 grigia. Eri confusa mercoledì, offuscata dai vetri appannati della Focus blu. Eri confusa giovedì, scecherata dalle sospensioni di quella Punto verde. Eri confusa venerdì, sul sedile posteriore di una Classe A nera. Nel week-end non sono venuto, perché credo sia giusto che tu abbia i tuoi spazi.
Incessante mi consumo per placare gran pene d’amore.
Ho anche provato ad uscire con altre ragazze, ma dopo avergli detto: “E daje!”, mi sono accorto che si trattava di tiri-tiri-turu, pille-pille-bum-bum, ciccia-ciaccia-kazum, ciuff-ciuff-brum-brum o du-du-du-da-da-da; ma mai, mai, mai era pacci-pacci-pum-pum. Ed ho capito che a me piace solo pacci-pacci-pum-pum e che questo riesce solo con te.
Così resto ancora qui a soffrire gran pene d’amore.
Comunque, non è stato per nulla di tutto ciò che ho deciso di scriverti. Semplicemente volevo dirti che nel mio sogno era bellissimo farlo al centro del lago, sul pelo dell’acqua; quindi, se ci sarà occasione, dobbiamo proprio tenerlo a mente e considerarlo come un posto nuovo da provare.

tuo per sempre

lunedì 20 novembre 2006

da quant’è che aspetti?

Carghi di pazienza. Serpentoni di pazienza imbottigliati. Invasioni d’ufo con raggi di pazienza.
Arriverà. Senza un telegramma, senza una telefonata, senza citofonare al portone. Sorpresi con i capelli sporchi, accovacciati sulla tazza, in mutande e canottiera o con la maionese che unge il mento.
C’è chi la chiama Ispirazione, chi la chiama Tempo, chi Fortuna, chi Intuizione. C’è chi la chiama Voglia, chi la chiama Luna e chi la chiama Stella. Chi la chiama Forma, chi la chiama Amore e chi Riccardo. Chi Culo, chi Pazzia, chi Noia, chi Poesia. C’è chi la chiama Sole, chi la chiama Chiara e chi Polpettone. C’è chi la chiama Grinta, chi Sesso, chi Daniele e chi Maria. C’è chi la chiama Necessità, chi la chiama Mamma, chi Papà. C’è chi la chiama Valentina, chi Luca, chi Futuro. C’è chi la chiama Io, chi Pallone, chi Gesù. C’è chi crede di chiamarla Danilo e invece la chiama Lucio. C’è chi non pensa proprio di chiamarla e chi non sa neanche che esiste. C’è chi la chiama Tristezza, chi Carbonara, chi Tiramisù. C’è chi la chiama Godot, chi Genio, chi Per Sempre, chi Mai Più. C’è chi la chiama Talento, chi la chiama Stasera, chi Finalmente e chi Perché. C’è chi ancora la chiama Elisa, c’è chi la chiama Oberon e chi la chiama Cane.
Io le ho preparato il letto, qui accanto a me. Con qualunque nome si presenti, spero si fermi a lungo. E' nelle sue mani la frequenza con cui questo blog verrà aggiornato e, nelle sue mani, è il tempo che attenderanno le bianche pagine che mi spettano.

giovedì 16 novembre 2006

cadaveri e morti viventi

Muovendosi sulla rete si rischia, ad ogni passo, di inciampare tra le sue maglie, restando aggrovigliati in cookies, virus, cactus, spic, spam, trojan, trans, redealer, lerdhammer, cognac e Beckenbauer. Quando si crede d’aver imparato a destreggiarsi, il piede va un po’ più deciso ed ecco che “TOC” colpiamo qualcosa: un cadavere.
E’ piena di cadaveri la rete: blog abbandonati, in avanzato stato di putrefazione.
Gran tristezza imbattersi in tali incontri. Sembrano vivi, fino all’ultimo. Si leggicchia qualche parola, si guardano un paio di foto, le immagini; quando decidiamo di approfondire la conoscenza, inattesa giunge la sorpresa: non respira più.
Date d’aggiornamenti che risalgono a mesi prima, a volte un anno e più. Puzza; e puzza da molto. Perché stai ancora qui cadavere? Qualcuno abbia il buon senso di seppellirti. Torna da dove sei venuto, con tutte le tue buone intenzioni disattese.
Non hai niente da dire ormai, parli con parole lontane millenni; da te e da me. Non ha senso rileggere il passato senza un presente e con un improbabile futuro. Dovevi conservarti in vita; è per te che respiravi, non per me. L’impegno è anche prendersi cura di se stessi: ti sei lasciato morire. Vattene. E portati dietro i morti viventi che si trascinano logorando la rete.
“L’alba è come i tuoi occhi e il mare come il mio cuore che si lascia scivolare sulla tua spiaggia”, “Amore mio sei tutto per me”, “A me piace vivere”, “Quando ascolto questa canzone non posso non pensarti”, “Tu colori la mia vita, senza di te sarei un film in bianco e nero”.
Blogghetti miei ho pena per voi. Per le frasi fatte, per quelle copiate e quelle d’effetto; per le frasi d’amore dodicenne, per quelle spacciate per filosofia o che insudiciano la parola poesia. Ho pena per i tvtttttb, per le frasi con cinquanta punti esclamativi, per quelle in cui la vita è solo triste e niente affatto bella e per i loro autori infelici, che di certo la vivono senza Nutella.
Voi non siete morti; ancora fiato esce dai vostri post, ma puzza: puzza anche il vostro alito. Morti che si fingono vivi perché vivi non son mai stati e non sanno cosa significa.
Divertente: finché non diventa irritante è divertente il vostro essere imbarazzante. Da qui ripartite: morti viventi, bloggatevi allo specchio e ridete di voi stessi. Non prendetevi sul serio che non ce n’è proprio motivo. Ridete dei vostri doppi menti di parole vuote, della buccia d’arancia delle vostre immagini, dei lardelli delle vostre citazioni, di questo cretino che vi guarda dalla foto e del suo pezzo delirante che ha appena finito di scrivere.

mercoledì 15 novembre 2006

il manuale delle giovani pedofilotte

  • Anni di lotte non hanno minato i nostri privilegi: siamo equiparate agli uomini solo dalla vita in su.
  • Intrufolarsi come personale docente in una scuola elementare o media; non c’è nessun sistema di controllo, è un gioco da bambini.
  • Si considerano bambini solo fin quando non riescono a pronunciare supercalifragilistichespiralidoso poi non più, anche se può sembrare spaventoso, perché in ogni discorso avranno un successo strepitoso.
  • Perché non sia violenza, non lasciare l’esemplare maschio segnato: niente succhiotti, uso eccessivo dei denti, di aggeggi in cuoio o in altri materiali.
  • Limitarsi a pratiche non invasive e non tracciabili.
  • Non traumatizzatelo: truccatevi.
  • Tenere sempre presente il fine educativo: “Così avranno qualcosa da raccontare ai nipoti”.
  • Se colte sul fatto, negare sempre: “E’ un corso di approfondimento sulle api e i fiori”.
  • Tutti diranno loro di esservi riconoscenti, quindi cercate di farci scappare una mancia o almeno lasciate il bigliettino da visita.
  • Se lui dimostra 3 o 4 anni in più della sua età e voi 3 o 4 anni in meno di quella che dichiarate, non è reato; a patto che la radice quadrata di tale differenza sia un multiplo di due o di tre e che voi ne sappiate la tabellina.
  • Dopo aver finito, non dimenticate la parte più importante: raggiungete un vostro collega uomo e sbeffeggiatelo, perché voi potete e lui no (per approfondimenti su questo punto si rimanda all’apposito capitolo: “Gesto dell’ombrello e altre figure retoriche per esultanze).
  • Anni di lotte non hanno minato i nostri privilegi: i bambini e le bambine non sono equiparati neanche dalla vita in su.

lunedì 13 novembre 2006

la porta dell'inferno

Il monito dantesco campeggia sulla testata del blog: oh buon Dante, così poco ci hai svelato.
Non ci hai detto che per entrare si entra tutti e che, dopo aver lasciato le speranze all'entrata, dobbiamo ricordarci di riprenderle all'uscita; perchè comunque si esce sempre. E che dopo essere usciti si rientra di nuovo e poi si riesce e si rientra, per un casino di volte.
Insomma, caro Dante, quello che non ci hai detto è che 'sta porta dell'inferno è come la porta del bagno: da quando ci tolgono il pannolino non possiamo far altro che entrare e uscire. L'unica soluzione è farsela sotto, se non fosse che poi in bagno dovremmo entrarci lo stesso, per lavare i pantaloni.
Ma va bene così! Basta sapere che questa è la regola del gioco: fuori e dentro l'inferno con l'immediatezza dei pensieri e dei crampi allo stomaco.
Questo blog è l'inferno? Il cesso? La porta? Verso fuori o verso dentro? Ma soprattutto: visto che faccio avanti e indietro, non c'è una tessera per raccogliere i punti?

ho deciso

Decisamente ho deciso cosa sarà di noi (di me e del blog).
Una collezione di deliri.
Presente quando davanti allo specchio, con la bocca piena di dentifricio schiumoso, si pensa alle cose più assurde, ci si sfoga, si fanno le facce e gli sguardi?
Ecco io delirerò davanti allo specchio di questo blog. Un modo come un altro per essere serenamente pazzo.
Facciamo un patto: nessuno si aspetterà nulla di serio da me e io non mi aspetterò nulla di serio da nessuno.
Se poi, alla fine, non avrò rispettato i patti, allora non mi ricandiderò per la prossima vita.

ci ho pensato

Ci ho pensato, davvero: tutta la notte e queste prime ore della mattina. Ancora non ho capito a cosa possa servire questo blog.
Sembra uno strumento d'adolescente: la moderna versione del diario che passava di banco in banco per essere imbrattato dai compagni (meglio dalle compagne, soprattutto quelle più carine).
Ciò che manca, però, è il gusto del pomeriggio. Quando, chiusi in camera a setacciarne ogni centimetro, si cercavano messaggi in codice o scritte particolarmente fighe; evocando alla mente il viso di chi l'aveva fatte e pensando a cosa significasse per noi.

domenica 12 novembre 2006

prime impressioni

Staffare è una droga!
Un modo per passare ore col cervello spento a fare cose inutili!
Figo: fa per me!

un inizio x caso

La testa pesantemente posata sulla mano, il gomito che scivola sulla scrivania sotto il peso della mia zucca vorticante di vuoto, l'espressione deformata da una smorfia ebete.
Nasce per caso questo blog (come un pò tutto del resto) in una serata gelatinosa e probabilmente morirà anche nello stesso modo, nel dimenticatoio di questo scemo che scrive.
Finchè dura fa verdura; e si sa, la verdura fa sempre bene.