lunedì 31 dicembre 2007

il gran rifiuto


Di crociate e di mercati,
di strilloni, di abiti sacri.
Di seni grossi, di pochi soldi,
di calunnie e sguardi ingordi.

E di spighe e di dolori,
di soppressata, di viaggiatori.
Di solitudine e di attese,
di labbra secche, di braccia tese.

Delle unghie e dei santi,
di promesse e di rimpianti.
Di fedine e del buon vino,
del godere, del mattino.

Di quell’uomo che non parla,
che si volta e se ne va.

E non c’è, non c’è più,
chi si sveglia a testa in giù.
E non c’è, non c’è più,
chi distrugge una tv.

Io, io si, vi odio tutti,
tutti quanti più che matti,
siete tegole su tetti
di ciambelloni e di biscotti.

Io, io si, vi odio tutti,
indifferenti come gatti,
siete tegole su tetti
di paranoie e di sospetti.

E non c’è, non c’è più,
chi si sveglia a testa in giù.
E non c’è, non c’è più,
chi ti guarda da lassù.
E non c’è, non c’è più,
chi ti ama non c’è più.

E io si, vi odio tutti.
E io si, vi odio tutti.

Io, io si, vi odio tutti,
trasparenti come tanti,
siete tegole su tetti
di messaggini e di contatti.

Io, io si, vi odio tutti,
croce rossa e saltimbanchi.
Io, io si, vi odio tutti
e vi maledico a denti stretti.

Tutti, tutti, tutti, tutti.
Tutti, tutti, tutti, tutti.
Tutti, tutti, tutti, tutti.
Tutti, tutti, tutti, tutti.

domenica 30 dicembre 2007

cieli ciclici (e rondini stufe)

Salta fringuello, salta se puoi, finché le zampe ti sentirai.
Canta pazzia ilare e disperata e maledici con viscere raggrinzite l’idea di questa serata.
Il cerchio di visioni sfilza fra le code degli occhi e dei frac che a pelle e piume ci hanno.
Che nel circolo soffrirai, profondo perderai e il cielo e la polvere e il buio mangerà l’aria. Strapperà le dita il fumo di risa medievali, campane in algide torri d’eterea terra.
Ma tornerai ed io ti aspetterò. Tornerai perché io ti aspetterò.
Ad una ad una, le zampe mozzate, in legatura d’oro nel libro dei ricordi. Morirai, morirai solo quando piacerà a noi. Morto e umiliato da zimbello, col ventre rasato, il becco spaccato e quell’ala, quell’ala bruciata e vuota.
Ma tornerai, nel ciclo dell’acqua tornerai. Tornerai e poi ancora e ancora.
Quella notte passerà in torture sfumate, penetrerai nella terra per raggiungermi in ogni poro e soffocarmi di deliri dementi.
Tornerai nell’acqua che torna. Tornerai e sceglierai per noi la fine che non hai scelto per te.
Tornerai e passerai.
Mi lascerai vivo, lo so, per questo ti uccideremo. In una sera di versi sconosciuti morirai per lo svolazzar di molte ali nel nero. E non saprai quale, non saprai quale, non saprai quale avrà sferrato il colpo mortale.
Cadrai come acqua cade e sparirai, poi nell’eterno volo ascenderai. E se il più buono ti sembrerò, tu non credermi, non credermi mai.

lunedì 24 dicembre 2007

alambicchi sotterranei

Bolle. Di colore come luci e fili e odori e capelli strisciati senza fine né interruzioni e vestiti. Ribollire d’asfalto fuso, cioccolata scivola bionde colline di pandoro e capelli legati senza alcuna pretesa. Bolle. Leggermente si sale e s’ondeggia, ragnatele negli angoli catturano quanto accanto vi passa, parole senza senso, senza senso. Con costanza, calma costante come carezze con cui chiedere cosa conta e perché, di terra e di notte senza amore sui muri molli. Bolle. E un cannocchiale a guardare deformità, barba lunga di bolle, mani incrinate di bolle, capezzoli di bolle, mondi di bolle piccole e circoscritte, senza un’idea, chiara, coinvolgente. Addio di risa sciolte in latte caldo, alla mattina del dì che aspetta ancora un’altra mattina e che riposa, si riposa, senza curarsi di piedi nudi e spessi vetri che ne vibrano i tendini.

venerdì 21 dicembre 2007

felicithon

E' un paradosso proprio ora. Un paradosso che mai ci hai fatto pesare. Ed io, scarno come ossa spolpate, ho sempre suonato di vuoto. Adesso sto zitto, ed è sempre troppo poco, e scrivo.
Che almeno nella confezione non faccia pasticci. Devo imparare ad intrecciare una coccarda più bella. Ti dono un quarto della mia felicità del prossimo anno e voglio splenda nella sua carta.
La percentuale è forse un tantino alta. Ma si sa, io sono un musone e se non l'aumento un pò, alla fine non ti arriva niente. Non mi peserà. Essere ancor più musone migliorerà il personaggio.
Spero il messo te la consegni tutta. Se resta in famiglia non sono geloso. E' per te, solo per te che sai che vuol dire. Perchè quando si perde qualcosa significa che almeno lo si è avuto.
Ti auguro tanti problemi sentimentali che ti strazino il cuore.
Ti auguro insalatiere di pasta col formaggio che non ti piace.
Ti auguro derby persi all'ultimo secondo e librerie di quei libri fantasy che non ti piacciono.
Ti auguro decine di esami da togliere il sonno.
A me auguro di augurarti ancora e ancora sporte di emozioni intense e spensierate. E che la felicità che ti dono fecondi quella che meriti. Frutto succoso scampato al gelo d'inverno. Verso il sole corri, corri in eterno.

venerdì 7 dicembre 2007

soltanto una storia d’amore fantasy vol.1

Sembra impossibile. Le visioni di un vecchio che non distingue la realtà dall’immaginazione. Odio gli sguardi compassionevoli e anche quelli rapiti dei bambini. Non è un gioco perdio! E’ solamente quello che è successo: i meri fatti istante dopo istante! Morirei per dimostrarlo. Mi squarcerei le braccia per fissare con l’ultimo sangue la verità della mia storia. Non temo di morire; davvero non potrei temerlo più dopo quella mattina nella mia stanza.
Il tavolo era lo stesso delle lunghe notti di studio, con il legno scuro mangiato dalle matite con cui mi piaceva inciderlo. La carta la migliore che fossi riuscito a trovare, sembrava assemblata di fiori secchi grigi e rosa. La penna una delle mie preferite, leggera e scorrevole, d’inchiostro nero lucido. Passai la mano sinistra a sfiorare il foglio, come per aprire il sipario dei miei pensieri; poi tuffai la destra ad imprimerli.
“Caro amore,
o forse non vuoi più che ti chiami così.
Da quel giorno dentro me c’è una selva intricata, spazzata da venti gelidi. Il sole si è spento, soffocato da grovigli di rami ritorti su cui passeggiano animali senza volto. Senza volto, perchè se non è il tuo, nessun volto ha ragione di essere.”

Avrei dovuto fermarmi qui. Avrei dovuto avvertire la brezza cristallina che mi attraversava il collo e il fruscio di versi estranei che l’accompagnava. Avrei dovuto alzare lo sguardo sospettoso dal foglio, invece che cedere all’impulsività della mia dannata mano, smaniosa di fissare le emozioni che l’attraversavano.
“Una terribile bestia è dietro di me. Ringhia di furore, sbava saliva densa come i nostri momenti più belli. Vuole avermi, sbranarmi; conosce il mio sapore e si sazierà soltanto nutrendosene.
Ho bisogno di te. Senza te non ho speranze. Ma tu non ci sei; e con te il mio futuro.”
Mi bloccai su un sordo latrato che giungeva dalle mie spalle. Un umido rumore impastava il roco verso, tramutandolo in rantolo affannato che gelava il sangue e il palato. Anche la penna tremava, trascinando nei suoi sussulti la mano che la stringeva.
Alzai lo sguardo su una foresta vergine nata dove poco prima si ergeva il muro della stanza. Il cuore si fermò a gocce, nebbia gelata prese possesso della fronte.
Mi voltai forzando il collo rigido e chiusi subito gli occhi alla vista di quell’ispido pelo verde. Quando li riaprii, la visione della belva non era svanita. Grande come un orso e con lunghe zanne sfoderate, in breve sarebbe stata più reale che mai: stava per saltarmi addosso.
Appallottolai il foglio e lo infilai nella tasca della giacca insieme alla penna, poi scappai via.
Abbandonai il tavolo e la sedia alla macchia che li aveva inghiottiti e fuggii più veloce che potevo.
Saltavo radici, schivavo foglie grandi come aquiloni, urtavo rami flebili e tronchi spezzati. Mi era sempre dietro, correva troppo veloce. Calpestavo funghi e muffa, strattonavo rovi, spostavo liane coi pugni serrati. Le quattro zampe pelose galoppavano sempre più vicine. Scansavo alberi e arbusti, saltavo rocce, schizzi d’acqua mi bagnavano i capelli, una sagoma comparve al mio fianco, intrecciò le dita alle mie, scivolammo nel fango insieme. La fiera ci era ormai addosso, col suo puzzo di addio. Correvamo fiori, era una donna, travolgevamo insetti, non potevo voltarmi ma ne avvertivo la sagoma scura, superavamo pozzanghere, ossa, vermi. Il mostro, il mostro ci desiderava. Colori a stento si imprimevano nello sguardo, i suoi capelli frustavano il viso, l’incalzante ritmo dei piedi martellava a terra, quel profumo di donna sfumava coi tanti che lasciavamo alle spalle. Balzava feroce dietro di noi, alla distanza d’una lingua di bava. Il fiato mancava, ormai mancava, con uno strattone del braccio fuso al suo mi trascinò nel fogliame e poi si lasciò cadere. Nel buio precipitai con lei.