venerdì 12 giugno 2009

corsa

Ci son mattine di sole annacquato, di cielo opaco, di vento strozzato. Mattine di giorni sbiaditi che raggomitolati in se stessi vogliono esser scordati. Ci son mattine che non ti aspetti possan diventar storia e leggenda. Son mattine, quelle mattine, da correre fino all’ultimo passo, all’ultimo miraggio, all’ultima tenda.
E la sera già affacciava al davanzale del meriggio quando tutto cominciò. Quasi per gioco, sfidando i dolori di corpi in disaccordo. Lui disse via, lei adeguò il ritmo dei suoi passi. Fu corsa leggera sul sentiero sconnesso. Sassosa la serpe grigiastra sgusciava nell’irreale silenzio d’alberi e prati. Occhiali da sole proteggevano da minacce invisibili, mentre il contrasto di magliette cercava un incontro nella sincronia dei passi appaiati. Intanto la strada si srotolava allegra quanto le parole che a tratti scambiavano.
Lei disse basta, lui si fermò, erano stati bravi. I polmoni inseguivano grossolani bocconi d’aria per lenire la fatica, ma era la soddisfazione il balsamo migliore. Erano stati bravi, lui glielo ripeteva. Erano stati bravi. Lei inspirava e sorrideva, espirava e sorrideva. Ripresero a correre quasi per gioco. Appena il cuore ebbe rallentato ricominciarono i passi a galoppare. Per poco, doveva essere per poco, solo un piccolo, breve tratto. Troppo presto per affrontare la salita diceva lei. Troppo presto per affrontare la salita diceva lui.
Il lago s’avvicinava velocemente, poi sfilava alla loro destra, portando con se il fascino sporco delle sue acque verdi. Ancora qualche passo e tutto sarebbe finito. Ancora qualche passo. Ora possiamo fermarci, disse lui, ma la storia non la pensava alla stessa maniera, aveva deciso di lasciare un segno in quel pomeriggio. Ora possiamo fermarci. Lei continuava a correre, lui la seguiva guardandola stupito. Lei disse qualcosa che lui non afferrò, non serviva sapere altro, era davvero tutto chiaro.
Si trovavano su una spiaggia bianca di isopodi, sale e telline, in una foresta di foglie grandi come vassoi o sulla superficie obliqua d’un meteorite perso nello spazio. Si trovavano ovunque e in nessun luogo in quel momento. Lei non correva, gridava di essere al mondo. Lui non correva, guardava lei incidere indelebile la propria impronta. La fatica non le facilitò il compito, scelse di contrastarla in ogni modo, per rendere più esaltante la vittoria.
E di vittoria si trattò.
Dovunque si trovassero, tornarono sul sentiero quando la salita finì. I capelli di lei continuavano a tremare pur senza i sobbalzi della corsa e per sentirla pronunciare di nuovo una parola dovettero passare lunghi minuti. Neanche lui parlava o forse delirava, non è facile trovar parole per le epiche imprese. In un attimo fu prato sotto le schiene e cielo davanti agli occhi. Cielo, tanto cielo, come una corona senza confini, da riempire, da rincorrere, da scalare.