giovedì 1 novembre 2012

per X che tende a “vissero per sempre felici e contenti”


Non so vederlo un complotto. Pensare che due giovanotti tedeschi avessero pianificato la deviazione dell’umanità con un paio di secoli d'anticipo, peraltro senza l’aiuto di nessun faccendiere, è troppo anche per la mia fantasia. Però sapevano, di questo son certo. Sapevano che le fiabe potevano cambiare il mondo. Chiunque scrive lo sa. Chi parla lo sa. Le parole hanno sempre rimodellato la realtà. E dall’immagine evocata da quel finale è scaturita una religione mendace fondata sul risultato. Ed una schiera di sacerdoti votati a lei fin dal primo vagito. “Il problema è sbagliato… Non è vero il risultato mi torna”. “Buono il tuo sformato… Sono contento ti piaccia, pensa che mi era caduto e ho dovuto ricomporlo”. “Tu parli di storie d’amore ma sei sempre solo, almeno io ho qualcuno accanto”. Perché? E’ che il danno è impastato all’acqua. Perché? Così il danno lo beviamo fin da bambini. C’è una fase in cui i bambini non fanno altro che chiedere ‘perché?’ e gli adulti non vedono l’ora che smettano. Il danno è trasparente, impalpabile, come l’acqua, come un plurale. Gli adulti dovrebbero lasciarsi contagiare, chiedersi il perché di quei perché, il perché di quel plurale, il perché di quel finale. La felicità è un virus infettivo senza anticorpi, eppure si può contrarre il sintomo senza condividerne il focolaio. E’ dramma e commedia fusi nella stessa opera. Cosa è vero? Cosa non lo è? Chi ha scelto chi? Perché?

Ho vissuto diversamente ed è stata una tortura. Non poter spiegare la mia diversità solo con una parola. Riconoscere ciò che ci controlla e sfidarlo, mantenere il conflitto anche dopo la sconfitta. E sconfitto ne sono uscito sempre seppur vivo per riprovarci. Testardo combatto un’equazione che non vuole combattere me. Io non gli interesso, resto un numero troppo piccolo. La matematica controlla il mondo. Io mi accanisco sulle equazioni più semplici, ad altro non arrivo. Ridotte ai minimi termini le modello tra le mani. Altero punti di riferimento, sfioro simboli e tutto cambia. La direzione cambia, la mia. L’umanità segue l’equazione principale: qualsiasi incognita della vita tende ad una surreale felicità di coppia e lì si ferma. Ferma, senza altre domande, appagata e vuota. La felicità come un'addizione. L'amore come un'addizione. Eppure soltano un passo più in là si capovolge il mondo. Un passo dentro i rovi. Spostare l’incognita, un tempo verbale diverso. Il principio è da soli tra i rovi. "Vivere per sempre felici e contenti" che tende a X. Perché l’avventura non termina con l’incontro. L’avventura inizia con la felicità e conduce ognuno in un posto diverso. Così le storie non finiscono mai, iniziano e ancora iniziano. Così l'amore non finisce mai. E i rovi non intralciano che il primo passo.

venerdì 26 ottobre 2012

il passo sbagliato

Il passo sbagliato è un ballo,
su pietre tremanti e bollenti,
cadendo divengo zimbello,
con cuore e piedi piangenti.
Il passo sbagliato è sicuro,
sicuro qualunque esso sia,
e mi presento a Sua Signoria,
come mulo che indegno cavalco.
Il passo sbagliato è cenere,
cosparsa sul capo più rado,
ormai non credo più a niente,
ritorno al centro del guado.
Il passo sbagliato è reale,
reale quanto la morte,
e cedo a lusingar la sorte,
che sola si mostra compagna.
Il passo sbagliato è eterno,
un ballo che non finirà,
su pietre tremanti e bollenti,
l’equilibrio non la spunterà.
 

martedì 23 ottobre 2012

promesse

 
Promettimi che sarà domani.
E domani che sarà domani.
Ogni giorno t'aspetto,
ogni giorno aspetterò
la tua promessa che sarà domani.
Ogni giorno sarà domani.
E' questa la vita assieme, le attese e le promesse. Disattese mai, neppure se l'attesa appassisce. Questa è la nostra vita assieme mia sposa. Legati da laccio ancestrale ci attendiamo a vicenda e promettiamo l'un l'altro che l'attesa non sarà vana. Che sarà domani e domani che sarà domani. Promesso.

domenica 14 ottobre 2012

Mattia e Sina

Soltanto la torre più alta del castello riusciva a emergere. Il verde del fogliame sciamava attorno allo sguardo, intenso, rapendo finanche gli angoli degli occhi. La foresta rubava la vista in ogni direzione, soltanto la torre più alta del castello riusciva a emergere. Come sempre. Nient’affatto timida pareva ondeggiare al richiamo del vento, come vessillo indicare la posizione, ostentare la propria importanza e rammentare l’obiettivo.
L’obiettivo. Il castello. Se fosse stato un proclama, una lettera dalla grafica incerta o persino una profezia a determinare il fine della missione, allora tutto avrebbe assunto un significato diverso. Forse la vittoria sarebbe stata possibile sospinta da un nobile scopo o quantomeno da un intento conosciuto. Invece si trattava di una sensazione. Soltanto una sensazione a guidare le gesta del cavaliere. Seppur intensa, dolorosa quanto la fame che morde lo stomaco, era ad una sensazione che aveva consacrato la vita, anche contro la propria volontà. E quella torre di pietra grezza, con troppi merli e nessuna finestra, emergeva ovunque si trovasse, qualunque fosse l’avventura da affrontare, colmandolo del bisogno di raggiungerla, insinuandogli nel petto la certezza che vi avrebbe trovato risposte.
Eppure, ora che sembrava vi fosse solo la foresta a separarlo dal castello, non aveva la forza di addentrarvisi. Si sentiva stanco, con gli arti pesanti, ogni piccolo movimento prosciugava le residue energie. In quell’insolito stato di intorpidimento, i suoi sensi avvertirono il pericolo troppo tardi. Non riusciva a girarsi ma percepiva il branco avvicinarsi alle sue spalle; ne sentiva gli uggiolii, il respiro affannato, i passi circospetti e quella roca impazienza che dalla gola si diffonde nei muscoli. Lento, lui era troppo lento. Troppo lento senza alcun motivo, senza nessuna possibilità di salvarsi.
Almeno avrebbe avuto fine l’ansia che lo consumava. La torre non avrebbe avuto più potere su di lui se fosse morto. Le lanciò un’ultima occhiata e smise di combattere la spossatezza. Il branco percepì la resa e, ululando all’unisono, si preparò ad attaccare.
In un attimo fu scaraventato a terra. Due possenti zampe gli inchiodavano le spalle ed un muso che non riusciva a mettere a fuoco gli sbavava sulla faccia. L’armatura che indossava fino a poco prima si era come dissolta sotto il peso dell’animale che ora gravava sul suo corpo nudo. Nudo. E il fiato caldo sul collo, la lingua umida sul viso. La lingua.
Ci vollero tre leccate affinché aprisse gli occhi e altre due perché riconoscesse Sina. Le diede il buongiorno e la scostò con decisione, adempiendo a una consuetudine che iniziava gran parte delle sue giornate, quelle in cui non si svegliava prima di lei.
La scelta del futon al posto di un normale materasso, dovuta al tetto spiovente della camera, si era rivelata provvidenziale dovendo essere buttato giù dal letto così spesso. Si alzò da terra e le chiese perché l’unica donna che gli saltasse addosso fosse un Terranova di sessanta chili, ma non ottenendo risposta andò sotto la doccia così come aveva dormito.
Ci mise poco l’acqua a bagnargli le mutande e raccogliersi attorno alle dita dei piedi. Quella tiepida carezza segnava nuovi sentieri tra i peli del suo corpo, mentre con gli occhi chiusi Mattia cercava di riprendere il filo del sogno. Ora si trovava di fronte una foresta. Una foresta che non aveva mai visto prima, che non voleva attraversare, che sicuramente nascondeva altri pericoli, altre stranezze. Una foresta che appariva l’ultimo baluardo prima del castello, com’era sembrato ogni ostacolo affrontato fino a quel momento.
Non ricordava quando avesse iniziato a sognare quel sogno. Lo spaventava, aveva la sensazione che fosse nato assieme a lui. A volte l’avventura si rivelava lunga, avvincente, altre, come quella notte, si limitava a brevi immagini, sensazioni, una miscela sempre diversa di potere e impotenza. E sempre, sempre il castello. Nei periodi in cui il sogno si eclissava dalle sue notti arrivava anche a dimenticarsene poi, senza preavviso, tornava a indossare i panni del cavaliere come non fosse passato neppure un minuto e l’ansia lo riassaliva. Un’ansia sottile, latente, non dovuta tanto al sogno in sé stesso, quanto alla sensazione d’esser seguito.
Aprì gli occhi, si spogliò delle mutande e iniziò ad insaponarsi velocemente, prestando una cura maggiore alle parti intime, alle ascelle e ai capelli, poi lasciò che l’acqua corrente lo sciacquasse. Uscendo dalla doccia fu grato allo specchio che si fece trovare appannato, nell’impossibilità di riflettere il solito ragazzo normale.
Nell’altra stanza Sina aspettava la colazione. Mattia la servì ma non fu altrettanto fortunato in quanto il frigorifero gli restituì solo un residuo di latte scaduto. Guardò il cane in cerca di consolazione ma lei non gli diede soddisfazione, continuando indifferente a mangiare. Ci avrebbe pensato il bar sotto casa, come sempre in questi casi, a placare il suo bisogno di colazione.
Si lavò i denti nel solito meticoloso modo, poi indossò dei pantaloni e una camicia che, miracolosamente, risultavano sia puliti che stirati. Uscì e rientrò da casa due volte prima d’esser sicuro di aver preso tutto, intanto Sina lo aspettava davanti all’ascensore.
Stupefacente come quel cane, senza nessuna educazione specifica, fosse riuscito ad adattarsi alla vita di Mattia. Sina lo accompagnava ovunque senza invadenza né bisogni particolari. Nel tempo era diventata l’ombra del suo padrone. Quanto un’ombra era nera ma più di un’ombra era ingombrante e così, quell’enorme sagoma scura seduta come una sfinge davanti al bar Crosta, inquietava sempre chi passava lì per la prima volta.
Mattia addentò un cornetto in attesa del cappuccino e si guardò intorno. Gli piaceva quel posto, era anonimo come lui e frequentato perlopiù dalle stesse persone ogni giorno, così era facile passare inosservati. Ormai neppure il grosso cane nero in posa statuaria sul marciapiede destava curiosità. Naturalmente capitavano al Crosta anche clienti mai visti prima e Mattia si divertiva ad osservarli senza farsi notare. Cercava di capire di chi si trattasse e come fossero arrivati lì. Queste intrusioni immaginarie nelle vite altrui gli permettevano d’evadere dalla sua per qualche momento, illudersi di conoscere persone nuove e, a volte, anche sentirsi migliore di altri. Quel giorno però non c’era molto da guardare: i tavolini erano occupati dai soliti vecchi immersi nelle pagine sportive dei quotidiani e inoltre aveva fretta. Finì il suo cappuccino senza zucchero, pagò e salutò l’anziano barista.
In macchina Sina si sdraiava sul sedile posteriore per non rendere inutile lo specchietto retrovisore. La vecchia Uno era troppo piccola per lei che doveva assumere una posizione scomoda, così Mattia le diceva sempre che non ci sarebbe voluto molto. Quella volta era perfino vero.
Il colloquio di lavoro a cui era atteso si trovava in periferia, al quinto piano di un palazzo moderno dall’ampio cortile. Come sempre Sina si sedette sulle zampe posteriori davanti al portone prima che Mattia dicesse qualsiasi cosa. Lui la esortò ad augurargli buona fortuna ma lei continuò a fissarlo impassibile, allora entrò con aria offesa e salì.
L’intero piano era dedicato all’azienda, illuminato con faretti dalla luce bianca che rendevano l’atmosfera d’un distacco irreale. Fu fatto accomodare in una stanza gremita di persone che ne seguirono con gli occhi ogni movimento, come per studiare la pericolosità dell’avversario. Mattia si era recato a quel colloquio senza aspettative né tensione, non si sarebbe mai immaginato che così tante persone volessero fare i venditori porta a porta. “Operatore commerciale diretto con mansioni di gestione portafoglio clienti” lo avevano definito sull’annuncio, ma un suo amico che aveva fatto lo stesso colloquio un anno prima lo aveva avvertito. Forse gli altri non lo sapevano, avrebbe spiegato perché indossavano tutti un abbigliamento troppo formale. Un altro elemento ad accomunarli era l’agitazione che ognuno sfogava in un modo diverso. Intanto altri pretendenti continuavano ad arrivare. Si sentiva allo zoo, in attesa che qualcuno si affacciasse alla gabbia giudicando quale fosse l’esemplare migliore.
Una delle segretarie comunicò che, considerata la grande partecipazione, avrebbero svolto prima un test scritto e, successivamente, chi fosse risultato idoneo, sarebbe passato al colloquio personale. Proprio in quel momento entrarono altri due ragazzi e una ragazza e la segretaria fu costretta a ripetere tutto da capo. Fu solo quando ebbe finito per la seconda volta che Mattia si allontanò.
Vedendolo tornare Sina gli lanciò alcuni abbai tonanti ma lui la zittì e senza guardarla si fece seguire fino alla macchina. Circa un’ora dopo erano alla loro spiaggia.
Se c’è un’ingiustizia nella creazione del mondo è che i cani non possano ridere. Spogliato di camicia, scarpe e calzini Mattia guardava Sina sguazzare sul bagnasciuga, tuffarsi in acqua, nuotare, uscire e scrollarsi, poi ripetere il tutto con gioia impaziente. In quel momento Sina rideva, ne era sicuro. Lui era felice perché lei era felice, lei era felice perché sapeva di rendere lui felice.
Il pomeriggio Mattia tentò di asciugarla con un lenzuolo prima di farla salire in macchina, lei ogni tanto abbaiava di gratitudine, lui la sgridava bonariamente per il vocione. Fu solo durante il ritorno che si affacciò nel ragazzo il senso di colpa per l’opportunità persa quella mattina. Non si rammaricava tanto di non aver ottenuto il lavoro e neanche di non averci provato, ciò che lo faceva star male era trovarsi sempre al punto di partenza. Era questo a spaventarlo: non aver la capacità di determinare il corso degli eventi. Il lavoro era solo uno degli aspetti di questa situazione, sebbene un aspetto piuttosto urgente poiché poteva resistere ancora poco senza un’entrata fissa.
Rientrando si fermò al bar Crosta per mangiare qualcosa alla faccia del frigo vuoto. Sina si sedette fuori, seguendolo con lo sguardo attraverso la vetrina mentre ordinava un toast, un succo di frutta e occupava uno dei tavolini. Attorno a lui molti volti conosciuti che ormai occupavano il bar allo stesso modo dei bicchieri dietro al bancone. Tra le persone che non aveva mai visto una ragazza immersa in un pc portatile occupava un tavolo, mentre due uomini di mezza età prendevano un caffè in piedi parlandosi contemporaneamente. Era affascinante come la familiarità dei loro gesti si scontrasse con l’evidente mancanza d’ascolto reciproco.
Mattia rimase a fissarli ben oltre il limite dell’educazione, costringendosi ogni tanto a distogliere lo sguardo. Intanto fantasticava. Pensava a quante stranezze accadono in un bar, alla quantità di racconti cui avevano accesso quelle pareti scrostate. Centinaia di persone al giorno, da anni, portavano lì dentro il proprio vissuto. Immaginava quelle pareti come spugne che si imbevevano delle storie degli avventori e le custodivano, scrigni sicuri, finché qualcuno, un giorno, non avesse scoperto il modo per stillare loro quei segreti. Quante storie sarebbero tornate alla luce, quanti misteri. Ci sarebbe stato anche lui in quelle pagine estorte, seppure in un ruolo marginario, in qualche riga da saltare nel susseguirsi di avvincenti racconti.
I due uomini erano andati via così girò automaticamente lo sguardo verso la ragazza al computer scoprendo che lo stava fissando. Gli sorrise, era carina, capelli castani di media lunghezza le incorniciavano scompigliati gli occhi vivaci. Indossava una maglia celeste e una gonna di jeans morbida. Mattia si sforzò di ricambiare il sorriso ma subito dopo, istintivamente, distolse lo sguardo, perdendosi la scena di lei che chiudeva il computer e lo raggiungeva al suo tavolo.
Da vicino era ancora più carina, alcuni dettagli del suo viso spiccavano come illuminati da un faro: la fossetta sulla guancia sinistra che nasceva ad ogni sorriso, sopracciglia folte modellate perfettamente sull’arco dei suoi occhi e denti molto bianchi e altrettanto dritti. Si chiamava Nicole e, dopo le presentazioni, gli chiese se conosceva il grosso cane nero seduto davanti al bar. Parlare di Sina era ciò che gli riusciva meglio. Normalmente non era timido, lo diventava con le ragazze che gli piacevano da subito, ma Sina era un argomento sul quale perdeva ogni imbarazzo, tirando fuori la parte migliore di sé. E lei aveva iniziato proprio da lì.
Nicole si dimostrava un’interlocutrice ideale. Curiosa ma mai pressante, divertente senza essere ironica; riusciva a metterlo a suo agio, a fargli raccontare molti più aneddoti di quanti ne avesse mai rivelati in una sola volta. E lei rideva, sorrideva, domandava.
Ordinarono un aperitivo e andarono avanti a lungo. Dopo che lui ebbe promesso di presentargliela quando sarebbero usciti, lei cambiò discorso, domandandogli a cosa pensava quando pareva essersi incantato, prima che lei lo raggiungesse.
Questo era un discorso più difficile da affrontare ma cavalcando la sintonia creatasi Mattia riuscì facilmente a superare l’esitazione iniziale. Le disse che stava pensando a quante storie avrebbero da raccontare le pareti di un bar come quello, che aveva immaginato muri come spugne che si imbevessero degli stralci di vita che le persone portavano dentro, tesori e fardelli che gravavano su di loro scrostandone l’intonaco, in attesa che qualcuno trovasse la chiave d’accesso a quei forzieri di conoscenza. Lei ascoltava rapita, con sguardo impassibile e il viso d’una serenità contagiosa. Lui concluse schernendosi, dicendole che a volte aveva anche pensieri più normali, poi, per cambiare discorso, le chiese cosa facesse lei con un portatile in un bar.
Nicole sorrise dolcemente e rispose che lei scriveva storie. Non specificò che tipo di storie, disse che si fermava a scrivere nei bar, nei pub o nei ristoranti per lasciarsi ispirare dalle persone, dai brani di vita che ognuno porta con sé in questi luoghi. Raccontò che aveva sempre immaginato che ogni persona si muovesse insieme alla propria stanza e che, prestando molta attenzione, questo spazio si potesse intuire, ricostruire, fino a risalire alla storia che l’aveva generato. Probabilmente avrebbe aggiunto dell’altro se Mattia le avesse fatto qualche domanda invece di restare talmente stupito dall’analogia dei loro pensieri da versarsi addosso quel che restava del suo aperitivo con mossa maldestra.
Seguì un frenetico movimento di mani e tovaglioli per rimediare al danno, la tensione fu stemperata e, in una ricomposta lucidità, poterono accorgersi di essere rimasti gli ultimi mentre il barista aveva iniziato le pulizie per la chiusura. Un po’ per necessità, un po’ per pensare a come salutarsi, Mattia andò a sciacquarsi dai residui di aperitivo appiccicati addosso.
Il bagno si trovava in fondo ad una scala che scese velocemente, accese la luce dall’esterno e scivolò dentro uno spazio stretto, senza nessuna finestra, con il lavandino a metà del lato lungo e la tazza in fondo. Si lavò le mani con cura, l’acqua che gli scorreva tra le dita riusciva a rinfrescare anche i suoi pensieri. Decise che le avrebbe chiesto di rivederla.
Aprì la porta verso l’interno e si trovò di fronte Nicole. Si scusò e fece per spostarsi e lasciarla passare ma lei cercò il contatto col suo corpo, spense la luce e lo spinse all’interno, chiudendosi dentro. Fece aderire il suo corpo contro quello di lui, infilandogli le mani dentro le camicia e provocandogli un’immediata erezione. Mattia si fece trovare impreparato al bacio lento che lei gli posò sul collo, ma fu solo un attimo, preludio all’insaziabile carezza di baci che le labbra di lui portarono sul suo corpo. Il lobo dell’orecchio, il collo, le spalle e poi finalmente le labbra, dolci e bramose della saliva dell’altro. Ancora il collo e poi il seno attraverso la maglietta da cui si intravedevano i capezzoli. La spinse con la schiena contro il muro, le mani dei due ragazzi si mossero contemporaneamente a spogliarsi l’un l’altro. Lui portò le dita sotto la sua gonna stringendo ed esplorando il solco del sedere prima d’accompagnare le mutandine a scivolare sulle cosce fino a terra. Le dita impazienti di lei ci misero un tempo più lungo del necessario a sbottonare i pantaloni e farli calare insieme agli slip, solo quando poterono stringersi intorno al pene duro di lui trovarono pace. La spinse ancora un po’ contro il muro e la sollevò leggermente, lei sfilò le infradito, alzò le gambe e puntò i piedi nudi sulla ceramica del lavandino. Mentre la penetrava piano lei smise di respirare e Mattia ebbe la sensazione che lo stesso facessero le pareti del bar Crosta.
Quelle spugne sempre pronte a catturare le storie altrui in quel momento si erano ritirate al massimo per assorbire senza essere invadenti. Tornando ad espandersi avrebbero poi tenuto con loro ogni dettaglio, ma per il momento discrete e complici trattenevano il respiro, fermavano il tempo, attutivano i rumori. E doveva essere questo ciò che avvertì Sina. Poiché il suo sguardo, pur attento, non aveva modo di arrivare laggiù, dovevano essere state queste vibrazioni percepite dai suoi sensi di cane a farla comportare come mai prima aveva fatto. Il Terranova si alzò, con passi lenti girò su sé stessa e con il caratteristico movimento laterale tornò a sedersi sulle zampe posteriori, questa volta, però, mostrando la schiena alla vetrina del bar.
Il corpo di Nicole accolse Mattia con la massima arrendevolezza. Quando si fu spinto più a fondo che poteva rimase un attimo immobile, affinché diventasse familiare ai loro sensi il contrasto del suo pene teso e pulsante avvolto dalle pareti di languido velluto della vagina di lei. Solo quando lui iniziò a muoversi Nicole espirò di nuovo. Non si trattò di un respiro normale, il suo fiato era già corto, voglioso, incalzante. Avevano saltato il crescendo tipico del piacere sessuale. La loro era stata un’esplosione, si trovavano entrambi già all’apice di un piacere che non era stato necessario scalare, non con il corpo almeno.
Nonostante la frenesia, i due ragazzi non si accoppiavano spinti da un bisogno animalesco, facevano l’amore come due innamorati. E che questo amore non avesse un passato e forse neanche un futuro non contava nulla, perché la passione che divampava nel presente ignorava il tempo, strinando indelebilmente l’esistenza di entrambi. Per sempre, da sempre. E che fosse un amore insolito non cambiava di certo l’essenza per le loro anime.
Baci colpivano morbidi ogni centimetro di viso capitasse alla portata della bocca. Mattia continuava a penetrarla senza fermarsi, la spingeva contro il muro, i corpi sudati, il buio, gli ansimi muti, i piedi aggrappati alla ceramica, la gonna arrotolata alla vita, l’odore di saliva, i peli pubici intrecciati, il sesso di lui bagnato di lei.
Quando Nicole avvertì che anche l’ultimo grumo al suo interno stava sciogliendosi, affondò il viso nel collo di Mattia e lo morse per non gridare. Venne. Venne sussultando con forza più volte. Appena sentì il dolore provocato dai denti di lei, come un richiamo, venne anche Mattia e ogni pensiero della sua mente divenne liquido e fluì in lei, lasciandolo svuotato, puro, libero come non si sentiva da tempo.
Rimasero avvinghiati stretti in quella posizione, sperando di trattenere il piacere più a lungo possibile. Entrambi avrebbero voluto dire qualcosa ma non lo fecero, si limitarono ad ansimare nell’orecchio dell’altro senza nessun controllo. In quel respiro affannato, in quel fiato caldo che investiva le orecchie vi erano le più dolci parole d’amore che due amanti potevano scambiarsi.
Fu esattamente in quel momento che Mattia ebbe la certezza di ciò che avrebbe incontrato nella foresta. La dimora di una strega. O di una fata.

sabato 13 ottobre 2012

sora Titta

E' caldo oggi. Non mi piace andare in vacanza, fa troppo caldo. Mi piace di più stare a casa mia. A casa mia c'è il caldo giusto, il nostro odore e i miei fornelli. A Giovanni piace il mare, ci vuole andare tutte le estati, si toglie la maglietta e le scarpe e sta bene. Sta bene Giovanni al mare, va in spiaggia la mattina presto e torna prima del troppo caldo. Il dottore non vuole che prenda il sole, ci siamo stati ieri insieme e gli ha detto che deve stare attento al sole, non esagerare e prendere delle pastiglie, tante, due volte al giorno. A me ha detto di controllarlo e ricordarmi come mi chiamo. Mi dice sempre la stessa cosa, di ricordarmi come mi chiamo. Me lo dice sempre, è una fissazione. Se mi sento confusa, ricordarmi come mi chiamo e procedere pianino. Partire da come mi chiamo e ripetere i fatti della mia vita, quelli più importanti. Iniziare dal mio nome e andare avanti con le cose semplici finché le idee non diventano più chiare. Più chiare, perché a volte nella testa scende la nebbia.
Mi chiamo Antonietta Carro e sono nata il quattro febbraio del millenovecento e trentuno, povera mamma diceva sempre che era un giorno di sole freddo. Povera mamma è morta tanti anni fa di un brutto male, io e Giovanni le siamo stati vicini fino alla fine. Anche Giovanni è morto, il diciannove di maggio del duemila. Non ci voleva proprio, non me l'aspettavo, io sono persa senza di lui. So fare tutto ma non è la stessa cosa se lui non c’è. Pure il sugo ha un sapore diverso. Sto bene, ho una buona pensione, mi vengono a trovare ma non è la stessa cosa. Non mi manca niente eppure mi manca tutto. Mi è rimasta solo casa mia. E mia sorella. Elena sta sempre con me, io devo proteggerla da sorella maggiore ma non posso fare niente con tutti quei giovanotti che le girano intorno, prima o poi qualcuno se la porterà via. Sono belle le sorelle Carro, tutte ci invidiano nel quartiere perché i ragazzi si girano a guardarci quando usciamo a fare compere. Guardano più me perché Elena è ancora piccola ma a me non interessa nessuno, neanche quel Giovanni che insiste ad accompagnarci. Oggi ho fatto giurare ad Elena di non dire a nostro fratello che Giovanni si è offerto di portarci la spesa fino a casa. Io gli ho detto di no ma lui ci ha seguito lo stesso e ha parlato tutto il tempo. Abbiamo allungato il passo ma non si è scoraggiato, se lo viene a sapere Mauro chissà che gli dice o che gli fa. Elena ha promesso, però poi ha riso.
- Antò sei sveglia?
- Chi è?
- Chi altro ha le chiavi? Sono Elena. Ti ho portato anche Laura oggi.
- Ciao zia!
Anche Laura oggi. Laura. Ciao zia. Sono la zia.
Mi chiamo Antonietta Carro, non ho avuto figli, il Signore non ha voluto, però è stato generoso con i miei fratelli: Mauro ne ha avuti tre, Elena due. Roberto e Giulia sono quelli di Mauro. C'è n'è un altro, il piccolo. Non mi viene mai il nome, è con la “V”. Quelle di Elena si chiamano Claudia e Clara. Laura è la figlia di Clara, una bella bambina sdentata.
- Come ti senti?
- Sono stufa di stare a letto.
- Era ora, così possiamo uscire.
- Come si chiama il piccolo di Mauro?
- Davide. Hai preso le pasticche?
- Ah ecco, Davide. Si, si, le ho prese, però quelle di Giovanni sono finite, devo andare a ricomprarle.
- Titta, Giovanni è morto dodici anni fa!
Giovanni è morto. Da dodici anni.
Io sono Antonietta Carro, sono nata il quattro febbraio del trentuno ed ho sposato Giovanni Leoni a vent'anni. Ero giovane ma non l'ho rimpianto neanche un attimo. Lui viveva per me già prima che io vivessi per lui. Se n'è andato prima di me così potevo mettermi in paro, ma non è la stessa cosa se lui non c'è. Non posso più mettermi in paro, non è la stessa cosa ora che non c'è.
- Lo sai che giorno è oggi?
Che giorno è oggi. E' un giorno caldo, a me non piace il caldo.
Sono Antonietta Carro, nata nel millenovecentotrentuno, ho ottantuno anni e non mi piace il caldo dei mesi estivi. Soprattutto i primi mesi, i primi caldi che mi fanno sentire più stanca, tanto più stanca perché non sono abituata.
- Giugno, duemila e dodici, il giorno non me lo ricordo mai lo sai.
Bambina vieni a sederti qui da me che questa non la sopporto già più.
- Ecco brava, stai con Laura che io do una sistemata.
- Non sono una bambina zia, ho quasi quindici anni.
Non sono una bambina. Ho quindici anni. Quasi quindici anni.
Laura è nata il 13 Agosto. Io e Giovanni siamo subito partiti dal mare per andare a trovare Clara in ospedale. Giovanni voleva molto bene a Clara, si è voluto fermare a comprare un grande mazzo di fiori e poi siamo stati tantissimo tempo a guardare la bambina dal vetro, lei è rimasta sveglia tutto il tempo senza piangere. Era così piccola.
- Lo so, me lo ricordo bene. Io e zio Giovanni siamo venuti a trovarti il giorno che sei nata. Lui era innamorato di te. Te lo ricordi?
- Poco. Mi ricordo qualcosa dai racconti e dalle foto di mamma.
- Giovanni voleva molto bene anche a lei. Era un uomo buono. Il più buono che ho mai conosciuto. Doveva vederti adesso che sei così bella, anche se un po' troppo magra.
- Magari fossi magra.
- Sei pelle e ossa, voi ragazze di oggi avete questo vizio: siete tutte magrissime e tutte uguali.
- Ma no zia, le mie compagne di classe sono molto più magre di me.
- Male. La ragazza non deve essere mai troppo magra, sennò i ragazzetti tanto veloce la prendono e tanto veloce la buttano via. Ai ragazzi serve la sostanza, credono di volere quelle magre invece hanno bisogno di qualcosa di consistente per sentirsi in pace. E' sempre stato così per tutto: gli uomini devono possedere cose di grande dimensioni.
- Titta ma che gli dici! E' solo una bambina,
- Macché bambina, è una signorina ormai, certe cose deve saperle.
Quanti anni fai?
- Quindici ad Agosto.
- Lo vedi? Non ti ricordi noi a quindici anni?
- Cosa facevate voi a quindici anni?
- Ma niente! Cosa vuoi che facevamo, tua zia sembrava un bersagliere, non mi faceva avvicinare nessuno. Se Giovanni non se la portava via, col cavolo che nasceva tua madre.
- Tua nonna esagera come al suo solito, mi preoccupavo per lei. Ad ogni modo ne riparliamo quando sarai più grande. Quanti anni hai adesso 'nì?
- Quindici.
Quindici. Già quindici anni. Giovanni se n'è andato il diciannove maggio di dodici anni fa, lei era ancora piccola. E' uscito di casa in un giorno nuvoloso e non è più tornato. Non lo so se lei l’ha saputo, se gliel’hanno detto o se hanno solo aspettato che lo dimenticasse. Giovanni se ne moriva per tenerla in braccio, diceva sempre che sarebbe diventata la più bella di tutte e lei non piangeva mai con lui. Nemmeno io ho mai pianto con lui, ho iniziato quando lui non c'era più.
- Io ho conosciuto Giovanni quando ne avevo diciassette, si erano trasferiti da poco, ti ricordi Lè?
- Si, si, mi ricordo. Mi sembra che oggi stai meglio, se hai finito di dormire sabato andiamo da Arnaldo a prendere il caffè, va bene?
Arnaldo. Il caffè da Arnaldo, sabato.
Io mi chiamo Antonietta Carro, ho due fratelli: Mauro e Elena. Mauro è più grande ma io e Elena siamo state sempre insieme, mentre lui stava più per conto suo. Anche adesso io e Elena abitiamo vicino e ci vediamo quasi tutti i giorni, invece Mauro viene a trovarci solo ogni tanto. Con mia sorella andiamo spesso a prendere il caffè da Arnaldo al bar Crosta. Arnaldo a modo suo è gentile ma il nome del bar è stupido, glielo abbiamo sempre detto, il caffè invece fa proprio schifo, ma questo non glielo diciamo, ci mettiamo il latte.
- Che dicono da Arnaldo?
- Quello che dicono tutte le volte che rimani a casa per giorni: che hai il mal di cuore.
Non lo sanno che il cuore è il minore dei problemi alla nostra età.
- Lasciali perdere, è il loro modo di dire “nostalgia”.
- Hai nostalgia zia?
- Tutti hanno nostalgia piccola, anche tu, solo che io ho più tempo per pensarci.
- Comunque non è il loro modo di dire “nostalgia”, sarebbero troppo intelligenti e allora non andrebbero al bar Crosta.
- Io non sono stupida e ci vado.
- Noi siamo l'eccezione.
Allora sabato. Non ti far trovare di nuovo a letto e datti una sistemata a quei capelli.
- Pensa ai tuoi di capelli.
- Ti telefono domani, ora andiamo.
- Tesoro dammi un bacio e telefonami anche tu qualche volta.
- Si zia.
- Ciao!
Ciao. Soltanto “ciao”. Giovanni non mi ha mai salutata così. E non ha mai neanche sbattuto la porta in quel modo. Quando torna devo chiedergli perché è arrabbiato e farmi perdonare.

giovedì 11 ottobre 2012

Tempest


Uno scrittore è un bugiardo. Sempre. Perché le storie hanno troppe implicazioni, radici aggrovigliate troppo in profondità affinché possano essere spiegate completamente. Lo scrittore scrive estraendo da se stesso finanche a farsi violenza, ma qualcosa resta inevitabilmente inabissato. E’ il pudore della storia, è il sottointeso inafferrabile, l’idea generatrice, il momento rubato. Lo scrittore mente sempre ai suoi lettori, ma non ai suoi personaggi. Mentire ai propri personaggi è tradire. Fiducia di madre, di figlio, di amante.  E non c’è litigio, divorzio che può appianare. E’ tutto finito, tutto perduto, tutto da buttare.
Quando l’ultima pagina stancamente si abbandona sulla carta passata, le parole finali suggellano un distacco già maturato: “non ho rimpianti.”. E chiudere la copertina diviene una necessità. Un urlo. Una richiesta di onestà. Un senso di fastidio. Il libro diviene un altro rimpianto.
Se fossi stato te Julie, non l’avrei mai scritto; se fossi stato te Jackson, non l’avrei mai detto. Essendo me, non l’ho mai provato. Che il rimpianto è l’essenza stessa della scelta, ne è anima, non intralcio. Il rimpianto è la passione che ricerca l’equilibrio sulla fune della coerenza. Ho rimpianto le decisioni più importanti un momento dopo averle prese, seppur convinto fossero le più giuste. Ho rimpianto la strada chiusa alle spalle come un amico mai conosciuto. Ho benedetto il mio rimpianto le volte in cui, sollecitato a riportarmi indietro nel tempo, esso mi ha mostrato come le mie scelte si fossero rivelate sbagliate.

Se fossi stato te Julie, non avrei mentito a Jackson. Proprio all’ultima pagina, proprio all’ultima riga del primo libro d’una trilogia. Che di tempo ne ha per comprendere l’inganno. Priva di rimpianti la vostra storia sarebbe terminata lì. E magari lui ora lo vorrebbe, perché ha capito che è tutto finito, tutto perduto, tutto da buttare. Senza rimpianti.

domenica 7 ottobre 2012

ritorni

  
Bentornato vento freddo,
bentornato alla mia vita,
bentornato a gelarmi il collo,
a farmi prudere le dita.
Se non ti ho chiuso, non t’ho rinchiuso,
forse solo nel mio petto,
sorge libero il sospetto,
che ti rivolessi qui.
Per il male che mi hai fatto,
ho guidato la tua mano,
ed il bene l’ho sepolto
affinché soffrissi  invano.
Ad ogni colpo di coltello,
ad ogni virgola d’inchiostro,
bentornato vento freddo
a risvegliare questo mostro.
Ed i passi li ho contati,
li ho contati e ricontati,
trascinati e circolari,
camminavano da soli.
Se ti ho sfidato e ti ho gridato,
forse solo nella mente,
torna vivida e incosciente,
l’idea d’averti qui.
Bentornato vento freddo,
dimmi quanto vuoi restare,
io mi copro e mi preparo
a vederti allontanare.
Bentornato vento freddo,
bentornato alla mia vita,
bentornato a scivolarmi
troppo in fretta tra le dita.

sabato 6 ottobre 2012

apparizioni


Ci sono ricordi, ci sono presenze, che bucano lo stomaco, che comprimono il cuore. Tu no. Tu passi una lama ai lati del mio sterno. Dall'interno il metallo scivola lieve sulla gabbia toracica che ignara si beffa di te. E si dimentica dell'impalpabile carezza affilata per le mille e mille volte successive.
Se ne ricorda, se ne ricorderà, quado le ossa cederanno, ormai tagliate di netto. Allora il busto non sarà più, le game non saranno più, la vita, il mondo non sarà più. Avrai reclamato oltre lo stomaco, oltre il cuore, avrai reclamato tutto. Ed io rimpiangerò, una volta ancora, di non avertelo donato quando erano i tuoi baci a chiederlo.