sabato 13 ottobre 2012

sora Titta

E' caldo oggi. Non mi piace andare in vacanza, fa troppo caldo. Mi piace di più stare a casa mia. A casa mia c'è il caldo giusto, il nostro odore e i miei fornelli. A Giovanni piace il mare, ci vuole andare tutte le estati, si toglie la maglietta e le scarpe e sta bene. Sta bene Giovanni al mare, va in spiaggia la mattina presto e torna prima del troppo caldo. Il dottore non vuole che prenda il sole, ci siamo stati ieri insieme e gli ha detto che deve stare attento al sole, non esagerare e prendere delle pastiglie, tante, due volte al giorno. A me ha detto di controllarlo e ricordarmi come mi chiamo. Mi dice sempre la stessa cosa, di ricordarmi come mi chiamo. Me lo dice sempre, è una fissazione. Se mi sento confusa, ricordarmi come mi chiamo e procedere pianino. Partire da come mi chiamo e ripetere i fatti della mia vita, quelli più importanti. Iniziare dal mio nome e andare avanti con le cose semplici finché le idee non diventano più chiare. Più chiare, perché a volte nella testa scende la nebbia.
Mi chiamo Antonietta Carro e sono nata il quattro febbraio del millenovecento e trentuno, povera mamma diceva sempre che era un giorno di sole freddo. Povera mamma è morta tanti anni fa di un brutto male, io e Giovanni le siamo stati vicini fino alla fine. Anche Giovanni è morto, il diciannove di maggio del duemila. Non ci voleva proprio, non me l'aspettavo, io sono persa senza di lui. So fare tutto ma non è la stessa cosa se lui non c’è. Pure il sugo ha un sapore diverso. Sto bene, ho una buona pensione, mi vengono a trovare ma non è la stessa cosa. Non mi manca niente eppure mi manca tutto. Mi è rimasta solo casa mia. E mia sorella. Elena sta sempre con me, io devo proteggerla da sorella maggiore ma non posso fare niente con tutti quei giovanotti che le girano intorno, prima o poi qualcuno se la porterà via. Sono belle le sorelle Carro, tutte ci invidiano nel quartiere perché i ragazzi si girano a guardarci quando usciamo a fare compere. Guardano più me perché Elena è ancora piccola ma a me non interessa nessuno, neanche quel Giovanni che insiste ad accompagnarci. Oggi ho fatto giurare ad Elena di non dire a nostro fratello che Giovanni si è offerto di portarci la spesa fino a casa. Io gli ho detto di no ma lui ci ha seguito lo stesso e ha parlato tutto il tempo. Abbiamo allungato il passo ma non si è scoraggiato, se lo viene a sapere Mauro chissà che gli dice o che gli fa. Elena ha promesso, però poi ha riso.
- Antò sei sveglia?
- Chi è?
- Chi altro ha le chiavi? Sono Elena. Ti ho portato anche Laura oggi.
- Ciao zia!
Anche Laura oggi. Laura. Ciao zia. Sono la zia.
Mi chiamo Antonietta Carro, non ho avuto figli, il Signore non ha voluto, però è stato generoso con i miei fratelli: Mauro ne ha avuti tre, Elena due. Roberto e Giulia sono quelli di Mauro. C'è n'è un altro, il piccolo. Non mi viene mai il nome, è con la “V”. Quelle di Elena si chiamano Claudia e Clara. Laura è la figlia di Clara, una bella bambina sdentata.
- Come ti senti?
- Sono stufa di stare a letto.
- Era ora, così possiamo uscire.
- Come si chiama il piccolo di Mauro?
- Davide. Hai preso le pasticche?
- Ah ecco, Davide. Si, si, le ho prese, però quelle di Giovanni sono finite, devo andare a ricomprarle.
- Titta, Giovanni è morto dodici anni fa!
Giovanni è morto. Da dodici anni.
Io sono Antonietta Carro, sono nata il quattro febbraio del trentuno ed ho sposato Giovanni Leoni a vent'anni. Ero giovane ma non l'ho rimpianto neanche un attimo. Lui viveva per me già prima che io vivessi per lui. Se n'è andato prima di me così potevo mettermi in paro, ma non è la stessa cosa se lui non c'è. Non posso più mettermi in paro, non è la stessa cosa ora che non c'è.
- Lo sai che giorno è oggi?
Che giorno è oggi. E' un giorno caldo, a me non piace il caldo.
Sono Antonietta Carro, nata nel millenovecentotrentuno, ho ottantuno anni e non mi piace il caldo dei mesi estivi. Soprattutto i primi mesi, i primi caldi che mi fanno sentire più stanca, tanto più stanca perché non sono abituata.
- Giugno, duemila e dodici, il giorno non me lo ricordo mai lo sai.
Bambina vieni a sederti qui da me che questa non la sopporto già più.
- Ecco brava, stai con Laura che io do una sistemata.
- Non sono una bambina zia, ho quasi quindici anni.
Non sono una bambina. Ho quindici anni. Quasi quindici anni.
Laura è nata il 13 Agosto. Io e Giovanni siamo subito partiti dal mare per andare a trovare Clara in ospedale. Giovanni voleva molto bene a Clara, si è voluto fermare a comprare un grande mazzo di fiori e poi siamo stati tantissimo tempo a guardare la bambina dal vetro, lei è rimasta sveglia tutto il tempo senza piangere. Era così piccola.
- Lo so, me lo ricordo bene. Io e zio Giovanni siamo venuti a trovarti il giorno che sei nata. Lui era innamorato di te. Te lo ricordi?
- Poco. Mi ricordo qualcosa dai racconti e dalle foto di mamma.
- Giovanni voleva molto bene anche a lei. Era un uomo buono. Il più buono che ho mai conosciuto. Doveva vederti adesso che sei così bella, anche se un po' troppo magra.
- Magari fossi magra.
- Sei pelle e ossa, voi ragazze di oggi avete questo vizio: siete tutte magrissime e tutte uguali.
- Ma no zia, le mie compagne di classe sono molto più magre di me.
- Male. La ragazza non deve essere mai troppo magra, sennò i ragazzetti tanto veloce la prendono e tanto veloce la buttano via. Ai ragazzi serve la sostanza, credono di volere quelle magre invece hanno bisogno di qualcosa di consistente per sentirsi in pace. E' sempre stato così per tutto: gli uomini devono possedere cose di grande dimensioni.
- Titta ma che gli dici! E' solo una bambina,
- Macché bambina, è una signorina ormai, certe cose deve saperle.
Quanti anni fai?
- Quindici ad Agosto.
- Lo vedi? Non ti ricordi noi a quindici anni?
- Cosa facevate voi a quindici anni?
- Ma niente! Cosa vuoi che facevamo, tua zia sembrava un bersagliere, non mi faceva avvicinare nessuno. Se Giovanni non se la portava via, col cavolo che nasceva tua madre.
- Tua nonna esagera come al suo solito, mi preoccupavo per lei. Ad ogni modo ne riparliamo quando sarai più grande. Quanti anni hai adesso 'nì?
- Quindici.
Quindici. Già quindici anni. Giovanni se n'è andato il diciannove maggio di dodici anni fa, lei era ancora piccola. E' uscito di casa in un giorno nuvoloso e non è più tornato. Non lo so se lei l’ha saputo, se gliel’hanno detto o se hanno solo aspettato che lo dimenticasse. Giovanni se ne moriva per tenerla in braccio, diceva sempre che sarebbe diventata la più bella di tutte e lei non piangeva mai con lui. Nemmeno io ho mai pianto con lui, ho iniziato quando lui non c'era più.
- Io ho conosciuto Giovanni quando ne avevo diciassette, si erano trasferiti da poco, ti ricordi Lè?
- Si, si, mi ricordo. Mi sembra che oggi stai meglio, se hai finito di dormire sabato andiamo da Arnaldo a prendere il caffè, va bene?
Arnaldo. Il caffè da Arnaldo, sabato.
Io mi chiamo Antonietta Carro, ho due fratelli: Mauro e Elena. Mauro è più grande ma io e Elena siamo state sempre insieme, mentre lui stava più per conto suo. Anche adesso io e Elena abitiamo vicino e ci vediamo quasi tutti i giorni, invece Mauro viene a trovarci solo ogni tanto. Con mia sorella andiamo spesso a prendere il caffè da Arnaldo al bar Crosta. Arnaldo a modo suo è gentile ma il nome del bar è stupido, glielo abbiamo sempre detto, il caffè invece fa proprio schifo, ma questo non glielo diciamo, ci mettiamo il latte.
- Che dicono da Arnaldo?
- Quello che dicono tutte le volte che rimani a casa per giorni: che hai il mal di cuore.
Non lo sanno che il cuore è il minore dei problemi alla nostra età.
- Lasciali perdere, è il loro modo di dire “nostalgia”.
- Hai nostalgia zia?
- Tutti hanno nostalgia piccola, anche tu, solo che io ho più tempo per pensarci.
- Comunque non è il loro modo di dire “nostalgia”, sarebbero troppo intelligenti e allora non andrebbero al bar Crosta.
- Io non sono stupida e ci vado.
- Noi siamo l'eccezione.
Allora sabato. Non ti far trovare di nuovo a letto e datti una sistemata a quei capelli.
- Pensa ai tuoi di capelli.
- Ti telefono domani, ora andiamo.
- Tesoro dammi un bacio e telefonami anche tu qualche volta.
- Si zia.
- Ciao!
Ciao. Soltanto “ciao”. Giovanni non mi ha mai salutata così. E non ha mai neanche sbattuto la porta in quel modo. Quando torna devo chiedergli perché è arrabbiato e farmi perdonare.

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