Uno scrittore è un bugiardo.
Sempre. Perché le storie hanno troppe implicazioni, radici aggrovigliate troppo
in profondità affinché possano essere spiegate completamente. Lo scrittore
scrive estraendo da se stesso finanche a farsi violenza, ma qualcosa resta inevitabilmente
inabissato. E’ il pudore della storia, è il sottointeso inafferrabile, l’idea
generatrice, il momento rubato. Lo scrittore mente sempre ai suoi lettori, ma
non ai suoi personaggi. Mentire ai propri personaggi è tradire. Fiducia di
madre, di figlio, di amante. E non c’è
litigio, divorzio che può appianare. E’ tutto finito, tutto perduto, tutto da
buttare.
Quando l’ultima pagina
stancamente si abbandona sulla carta passata, le parole finali suggellano un
distacco già maturato: “non ho
rimpianti.”. E chiudere la copertina diviene una necessità. Un urlo. Una
richiesta di onestà. Un senso di fastidio. Il libro diviene un altro rimpianto.
Se fossi stato te Julie, non l’avrei
mai scritto; se fossi stato te Jackson, non l’avrei mai detto. Essendo me, non
l’ho mai provato. Che il rimpianto è l’essenza stessa della scelta, ne è anima,
non intralcio. Il rimpianto è la passione che ricerca l’equilibrio sulla fune
della coerenza. Ho rimpianto le decisioni più importanti un momento dopo averle
prese, seppur convinto fossero le più giuste. Ho rimpianto la strada chiusa
alle spalle come un amico mai conosciuto. Ho benedetto il mio rimpianto le
volte in cui, sollecitato a riportarmi indietro nel tempo, esso mi ha mostrato
come le mie scelte si fossero rivelate sbagliate.
Se fossi stato te Julie, non
avrei mentito a Jackson. Proprio all’ultima pagina, proprio all’ultima riga del
primo libro d’una trilogia. Che di tempo ne ha per comprendere l’inganno. Priva
di rimpianti la vostra storia sarebbe terminata lì. E magari lui ora lo
vorrebbe, perché ha capito che è tutto finito, tutto perduto, tutto da buttare.
Senza rimpianti.
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